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OST Series: The Knick, il suono di una placenta previa

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Dio non sta guardando. È troppo occupato a non salvare i bambini malati e i poveri affamati. Se esistesse, lui è quello che dovrebbe espiare, non tu.

Anni fa chiesi ad un amico chirurgo, che cosa si provasse ad “aprire la gente”. Mi disse molte cose, parlammo a lungo, ma una fra tutte mi rimase impressa: “La prima volta che ho usato un bisturi l’ho fatto su di un cadavere, dopo decine di altre volte ho usato quello stesso bisturi su di un essere vivente e quello che pensai fu soltanto che altri miliardi di medici l’avevano fatto prima di me.”

Fu un’espressione affascinante, probabilmente volutamente ad effetto, ma passati gli anni ho pensato che avesse, tra le righe, una potenza comunicativa sconfinata.

The Knick è la storia di un ospedale d’inizio novecento, è la storia di un medico e di una tra le professioni più difficili che un uomo possa imparare e poi compiere.
The Knick è una serie tv come tante ce ne sono state, ma unica nei suoi tratti.
Grey’s Anatomy, E.R., Dottor House, dimenticatevene. Il concetto ideato dalla combo Jack Amiel – Michael Begler e realizzato da Steven Soderbergh è quello di scavare nei lati oscuri della ricerca medica. Accostare l’orrore concreto dell’operazione chirurgica attraverso gli occhi del Dottor John Thackery – rappresentato in modo egregio da Clive Owen – tra i corridoi e le sale del Knickerbocker Hospital.
Il pilot inizia con l’immagine di quattro dottori in una sala operatotia-teatro. Essi si esibiscono nel tentativo di salvare una donna incinta con un caso di placenta previa. Questo dopo nemmeno quattro minuti dall’inizio della puntata. Ovviamente la durezza delle immagini è rara.

L’intero soggetto pare essere ispirato dalla vita di William Stewart Halsted, chirurgo statunitense al quale si attribuirebbe il merito della nascita della chirurgia moderna.

Ti piaccia allora darmi retta se dico che so creare stranezze.

La performance di Clive Owen è stata innalzata e acclamata a sfiorare la perfezione, come anche il soggetto realizzato da Amiel e Begler. Ci si aspettava forse di più da Soderbergh che, a detta dei giornali e dei siti specializzati, sembra essersi perso per strada. Cosa di cui sono parzialmente d’accordo. Il pilot della serie, insieme alle due puntate seguenti, rasenta una bellezza stilistica a mio parere incredibile, trasformando ancora di più una serie tv in qualcosa che si accosta ai film da grande schermo in modo quasi gemello, cosa ormai assodata, tra le altre cose.
Quello che accade dopo però, è che tutto si stempera – a livello registico – quasi rassegnandosi per poi esplodere nuovamente nelle ultime due puntate. Non voglio dire, con questo, che Soderbergh ha fallito, anzi è proprio da un grande regista come lui che ci si aspettano grandi prove. In questo caso ha peccato di non essere riuscito a mantenere alto un ritmo già molto elevato in partenza. Se questo sia davvero un demerito, lo lascio decidere ad altri.

Chi invece ha vinto a mani basse è senz’altro Cliff Martinez, che già gode di una collaborazione piuttosto produttiva con il regista di Atlanta e di cui noi vantiamo una delle pochissime interviste per l’Italia.
Credo che, negli ultimi due anni, ci siano soltanto due series scores in cima alla montagna in grado di non farsi sorpassare da nessuno; sono Utopia e The Knick.
Le composizioni di Martinez sono asciutte, modulari, in cui il suono del sintetizzatore è padrone della strada e si fa avanti scivolando freddo su binari di ghiaccio. E’ proprio questa la sensazione l’ascolto di “Son of Placenta Previa”, la title track. Lampi e tagli netti come – per l’appunto – un bisturi. Nessuna speranza e niente calore. Una corsa lenta all’interno di un corpo e poi sul candido di lenzuola sporche di globuli, fino sulle piastrelle linde, lisce, immacolate dai disinfettanti.
“I’m the Pink” segue la stessa linea, ma ci si accorge di altri suoni, forse la ritmica di un carillon ad inseguire istanti maciullati da un’era crudele e priva della conoscenza che occorre alle vittorie senza caduti. Un medico rincorre la sua stessa fama, stretto nella morsa di una dipendenza da cocaina che lo costringe ad essere l’uomo importante che è, ma con quei crateri di debolezze che lo porteranno a spegnersi e riaccendersi come una lucciola vicino e lontano da un palmo.
Sullo sfondo di suoni quasi pizzicati da Martinez, strazianti ma che entrano nella pelle come punti di sutura senza anestetico, ci troviamo ad osservare vicende senza speranza. La rassegnazione al razzismo di un medico di colore o quella di un padre che perde la piccola vita della propria figlia per una meningite che non riuscito a controllare.
C’è l’amore, sia nella musica, che talvolta leggera e soave, va a farsi catturare da ragnatele sintetiche cui il compositore non può rinunciare. Perché è l’intera serie che non accetta l’amore, o quantomeno non lo pretende e lo chiude in soffitta, incatenato ad assi di legno. L’amore di un’infermiera verso un dottore affascinante che però ha perso l’amore per qualsiasi altra cosa che non sia la sua ricerca e la sua droga. L’amore per una donna e un uomo costretti a uccidere il proprio figlio a colpa di regole morali immorali.
Santi e demoni che raccolgono morti e seppelliscono feti, uno al fianco dell’altro, compagni come lo sono il Gatto con la Volpe.
Martinez è in grado di reggere la tensione e allo stesso tempo distribuirla.
“Aortic Aneurysm Junior” si avvale di qualcosa in più, ad esempio, e diventa quasi un battito, che resta comunque soffocato, a mangiarsi di eco profondi come il niente.

Cliff Martinez, come spesso riesce a fare nelle sue colonne sonore, forgia la sua genialità nei buchi.
In attesa della seconda serie, godiamo, anche senza le immagini, di un tempo sospeso tra la musica, la gravità e la sua crudele assenza, quando un respiro smette di soffiarsi e tutto ciò che resta da fare è richiudere un corpo senza più anima.

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